“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”, scriveva Cesare Pavese ne “La luna e i falò”. Ho letto questo romanzo durante i miei anni universitari, quando vivevo a Torino e volevo saperne di più del Piemonte, dei grandi personaggi e dei luoghi di questa splendida regione, tra cui compare ovviamente Pavese e il suo Belbo.
In quel periodo avevo lasciato la Puglia già da un paio d’anni, ma ancora non immaginavo che da lì a poco avrei addirittura lasciato definitivamente l’Italia, quindi non solo il mio paesino di origine in provincia di Brindisi, ma persino il mio stesso Paese, la nazione che con la sua cultura ha determinato la mia identità.
A proposito di identità, questa non ce la costruiamo noi, ma ci viene regalata dagli altri, sostiene Galimberti. Niente di più vero! Io per esempio, ho percepito di essere “pugliese” solo una volta giunto qui in Estremo Oriente. Stando a contatto con ciò che più è diverso e lontano da me, ho realizzato ciò che sono, ovvero un brindisino!
È stato chiacchierando con i taiwanesi che mi sono reso conto dell'incanto dei trulli, della genuina bontà della burrata, della dolcezza del caffè leccese con i pasticciotti, dell’unicità del panzerotto, della genialità della bombetta, della delicatezza del capocollo, dell’eleganza delle città bianche nella valle d’Itria, della maestosità dell’ulivo e della profumo dell’olio… e poi, quant’è buono il Primitivo? Altro che il Barolo! Senza offesa ovviamente, caro Pavese… sto solo facendo dello humor, perché in realtà anche il Barolo non si discute!
Però, quando il treno entra in Puglia, e dal finestrino si iniziano a intravedere i muretti a secco che imbrigliano gli ulivi, è proprio in quell’istante che non riesco a non commuovermi, e lì mi rendo conto che ho il cuore a forma di trullo.
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